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Storia
del Quartiere Aurora |
Ancora negli anni ‘30 il borgo Dora presentava l’antico
aspetto dell’insediamento produttivo più importante
della città. Lungo il “canale dei Mulini”
(ora coperto, corrispondente alle vie Fagnano, Treviso, del
Fortino, Pisano) derivato dalla Dora e diramato dal canale Pellerina,
si stabilì dal tardo medioevo un primo nucleo di opifici
dotati di ruote idrauliche. Esso prese consistenza tra il’
600 e ‘700 insieme all’abitato fuori dalla porta
Doranea (corrispondente circa all’attuale Piazza Porta
Palazzo).
Nel
borgo Dora avevano sede concerie, battitori da panno, peste
da canapa e da olio; su essi dominava il grande complesso
dei “Molassi”, i più importanti mulini
per granaglie della città, di origine medievale, ristrutturati
nel ‘700. Vi erano inoltre due setifici, costruiti alla
fine del ‘600, considerati come le prime industrie del
Regno sabaudo, di cui oggi non rimane traccia Infine, qui
sorgeva la “Regia Polveriera”,oggi trasformata
in “Arsenale della pace”, a cura del Sermig.
Nel
1850 Borgo Dora contava più di 20.000 abitanti, per
gran parte operai, tanto da essere considerato il quartiere
operaio più grande di Torino.
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I quartieri Popolari nell'Ottocento a Torino.
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Per
scoprire la struttura architettonica, ma anche le caratteristiche delle
abitazioni degli operai della Torino risorgimentale, di cui attualmente
non vi è più traccia, è necessario approfondire lo
sviluppo urbano, facendo un breve excursus sulle tappe salienti, che hanno
conferito alla città l’odierna fisionomia.
Sotto
Vittorio Amedeo III (1773-1796) si era verificato un intenso fenomeno
di inurbamento; in effetti, in pochi decenni la popolazione torinese era
passata dai 65809 ai 90613 abitanti. In seguito Torino iniziò la
sua ascesa economica e sociale ottenendo, sotto l'egida francese, il riconoscimento
di capoluogo del dipartimento del Po nel 1802. In questo periodo avvenne
l'abbattimento delle porte della città e dei bastioni e furono
avviati i lavori per la costruzione di opere pubbliche, in particolare
ponti e piazze in sintonia con il gusto neoclassico, segno dell'influenza
della dominazione francese. Tra le opere realizzate sotto Napoleone si
ricorda Piazza Vittorio Emanuele, l'attuale Piazza Vittorio Veneto, progettata
dall'architetto Giuseppe Frizzi; essa costituisce lo sbocco monumentale
della seicentesca via Po.
Nel
1807 venne realizzato un ponte di pietra sul Po ad opera dell'architetto
Carlo Bernardo Mosca; esso aprì un nuovo ingresso alla città,
in corrispondenza del quartiere Balon. Nel 1811, nell’attuale piazza
Castello, un incendio distrusse il Padiglione Reale, sostituito successivamente
dalla cancellata di Pelagio Palagi.
Inoltre
in questi anni venne introdotta la numerazione stradale.
Nonostante
i grandi cambiamenti a livello architettonico apportati da Napoleone,
gli accrescimenti edilizi furono rari fino al 1848, quando Torino cominciò
una grande dilatazione, che fu decisiva, perché nei cinquant’anni
successivi la pianta della città si ampliò di ben venti
volte rispetto allo spazio occupato da essa nei precedenti diciotto secoli
di esistenza.
Il
diffondersi della dottrina economica del liberismo corrispose ad un nuovo
impianto edilizio, non più caratterizzato dalla rigida pianificazione
urbanistica, bensì dallo stimolo speculativo dei privati. Il perimetro
della città fu ampliato dalla costruzione della cinta daziaria
in muratura, che seguiva le maggiori direttrici degli assi suburbani,
mentre la pianta mantenne il suo carattere ortogonale e la sua diffusione
a schema stellare. Tra il 1822 e il 1829 alcuni isolati prospicienti il
viale del Re (ora Vittorio Emanuele II) furono lottizzati e destinati
all’accrescimento edilizio; i primi edifici, sorti nel 1834, conferirono
la fisionomia definitiva al Borgo Nuovo, attorno al quale fiorirono ampie
e rigogliose aree verdi. Allo stesso scopo fu pianificato più avanti
l’ingrandimento del Borgo San Salvario.
Lo
sviluppo dell’industria richiedeva inoltre vie di comunicazione
più sicure ed efficaci, esigenza che trovò risposta nella
creazione di un’agile ed articolata rete ferroviaria, la quale collegava
la città con Genova, Susa e Pinerolo; successivamente furono aggiunti
nuovi tratti che conducevano a Saluzzo e a Novara. Nacquero in concomitanza
nuove possibilità di insediamento industriale lungo le direttrici
della ferrovia; al centro di quest’intrico si ergeva la stazione
di Porta Nuova, progettata e realizzata dagli architetti Carlo Ceppi e
Alessandro Mazzucchetti.
Sempre
dal punto di vista architettonico Torino si arricchì con il sorgere
nel 1818 della Gran Madre di Dio, ad opera di Ferdinando Bonsignore, e,
più tardi, della Mole Antonelliana, uno dei monumenti più
rappresentativi della città; essa fu commissionata dalla comunità
Ebraica all’architetto Alessandro Antonelli per celebrare la libertà
di culto ottenuta grazie alla concessione dello Statuto Albertino.
L’incessante
affluenza di immigrati faceva nascere la necessità di ampliare
ulteriormente gli spazi dediti alla costruzione di nuclei residenziali,
tuttavia l’incombente trasferimento della capitale a Firenze frenò
quest’impulso edilizio.
A
Torino la vivace vita culturale, civile e politica si svolgeva tra piazza
Castello e Porta Nuova; le attività commerciali erano tendenzialmente
collocate a Sud, mentre nel Nord, nelle zone denominate genericamente
“Basso Dora”, sorgevano le industrie tessili e le fonderie,
vincolate dalla vicinanza di corsi d’acqua per poter sfruttare la
forza motrice idrica. Crescevano così i primi grandi insediamenti
industriali, che appunto si concentravano tra Borgo Dora, Il Martinetto
e il regio Parco : intorno ad essi nascevano quei nuclei di abitazioni
che costituivano i primi quartieri operai.
I
quartieri popolari, illustrati nella cartina 1, nascono praticamente nel
corso del 1800 a seguito dell’opera di industrializzazione attuata
dal ministro Cavour, anche se già nel 1781 era stato attuato un
primo esperimento di procurare alle masse operaie della città un
alloggio decente. Essendo stati insoddisfacenti i risultati, i lavoratori
torinesi vivevano nella quasi totalità in case d’affitto
e, eccezionalmente, presso alcuni complessi industriali in provincia,
in edifici forniti dallo stesso proprietario della manifattura.
Le
“case del popolo”, così chiamate da Michelle Pierrot,
si sviluppavano verticalmente, per concentrare il maggior numero di persone
nella minore area possibile, erano costituite da blocchi di appartamenti
omogenei, formati da una o due camere; spesso circondati da spazi verdeggianti,
erano però privi di quei servizi primari che altrove erano parte
integrante dei nuovi quartieri.
Una
descrizione pittoresca di uno di questi quartieri ottocenteschi la fornisce
Piero Soria nel suo romanzo “La primula di Cavour”:
“Si
allungava sul Po. Alla sinistra della piazza Vittorio Emanuele. Fino oltre
la strada di San Maurizio. In un intrico fittissimo di viottoli melmosi,
in cui l’acqua del fiume filtrava senza posa. Creando pozze e ristagni
maleodoranti. Che richiamava tutti i ditteri di Torino. Per questo il
popolino l’aveva chiamata la contrada del Moschino...”
In
quelle misere catapecchie di legno, lungo quegli orti stenti che si aprivano
improvvisi, in mezzo a quelle piccole reti agganciate ai pali e tra quel
nauseante lezzo di pesce appeso ad essiccare che faceva gemere persino
i cani, nessuno avrebbe mai lasciato mancare il suo sostegno a un vicino.”
Questo
a sottolineare la solidarietà, spesso la complicità, che
legavano gli umili, gli oppressi, i lavoratori nella splendida ed eterogenea
Torino ottocentesca.
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Le abitazioni popolari nell'Ottocento a Torino.
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Ormai
siamo abituati a pensare alla casa come luogo fondamentale per la nostra
esistenza, dove si trascorre la maggior parte del tempo. Essa rappresenta
infatti la famiglia, punto di sicurezza e di appoggio, ma non poteva essere
tale per un lavoratore durante l’800, in quanto gli operai lavoravano
fino a tredici ore al giorno fuori casa e, anche quando rientravano, non
potevano sicuramente godere di quella “privacy” a cui noi
oggi siamo abituati.
Questo
avveniva a causa del fatto che molto spesso le stanze dovevano essere
condivise da un alto numero di persone, creando così una situazione
di disagio morale e promiscuità che si aggiungeva al degrado delle
abitazioni.
Inoltre
l’abitazione era un problema che angustiava sia gli operai di Torino,
sia i salariati agricoli a causa dei prezzi elevati degli affitti in città
e la generale insalubrità delle case in campagna.
Dagli studi di Gian Mario Bravo su Torino operaia pubblicati nel 1968
si ricava che l’alloggio per una famiglia operaia era formata da
due stanze: una cucina-soggiorno, che di notte era anche la camera da
letto dei bambini più grandi, e un’altra camera per i bambini
più piccoli e i genitori. Dal momento che l’affitto rappresentava
il 20/25% degli introiti di una famiglia, questa era la prima spesa su
cui si risparmiava; così, man mano che la prole aumentava, diminuiva
anche il numero di stanze a disposizione.
A
Torino un appartamento decente, ma non elegante, in una casa moderna,
costava da 100 a 200 lire per stanza l’anno, mentre una piccola
abitazione operaia, di due stanze abbastanza grosse, o di tre piccoli
locali, costava complessivamente 150 lire annue.
Anche
le abitazioni riservate alla piccola borghesia avevano un costo elevato
e assorbivano buona parte dello stipendio di un impiegato, mentre abitazioni
per commercianti e artigiani comprendenti anche il negozio arrivavano
a costare 2500 - 3000 lire l’anno.
Ecco
una tabella riassuntiva del costo degli affitti nella Torino del primo
Ottocento.
Genere
abitazioni |
costo
£ |
periodo |
Piccola
operaia |
150
£ |
all’anno |
Appartamento
moderno |
100/200
£ |
per
stanza all’anno |
Piccola
borghese |
15/30
£ |
al
mese |
Negozi
e botteghe |
2500/3000
£ |
all’anno |
In
campagna |
in
media 675 £ |
all’anno |
Vediamo ora come erano costruite le case nel periodo carloalbertino: esternamente
rudimentali, di materiali semplici, questi edifici apparivano mal imbiancati,
con uno spazio strettissimo tra la grondaia e l’abbaino che portava
al tetto in travi di legno, carenti sia per l’architettura sia per
l’igiene. Generalmente esse davano su vie selciate, nel mezzo delle
quali correvano piccoli corsi d’acqua, le doire, che servivano di
scolo per le acque piovane e per i rifiuti: infatti una parte della città
mancava ancora di fognature. Le case inoltre erano prive di servizi decenti:
mancavano fonti d’acqua pubbliche e l’acqua potabile era data
solamente dai pozzi che ciascun edificio doveva possedere. Le latrine
erano esterne, su balconi o nei cortili, non sempre isolate con muri,
ma con semplici tramezzi, spesso comuni a più famiglie, a scapito
del mantenimento della pulizia. Inoltre ogni casa era obbligata a mantenere
latrine a disposizione dei passanti con il conseguente, immaginabile risultato
di sporcizia negli androni, nei cortili, nelle facciate prospicienti le
case.
All’interno
gli edifici popolari erano, su ogni piano, organizzati come un lungo corridoio
sul quale si disponevano molti usci, corrispondenti agli “appartamenti”.
Questi,
molto semplici, presentavano stanze spoglie e scure e una mancanza tale
di luce da non poter leggere senza rovinarsi gli occhi. Il riscaldamento
avveniva tramite un fornellino, che diffondeva ovunque polvere di carbone.
Le stanze erano poveramente arredate con seggiole e tavoli in legno; i
letti erano riservati ai lavoratori più agiati; per i più
poveri il giaciglio constava in un mucchio di stracci posti a terra a
costituire il materasso. Raramente un cassettone di famiglia, stoviglie
colorate o una gabbietta per gli uccelli davano un senso di intimità
e piacevolezza.
Ecco
la casa, la sweet home dove i lavoratori avrebbero dovuto trovare riposo,
serenità, allegria negli affetti familiari dopo una giornata lavorativa
di 12 - 13 ore in una fabbrica, dove d’altronde la situazione era
analoga.
Infatti,
le fabbriche di questo periodo erano in genere squallide e poste in vicinanza
dei corsi d’acqua per poter usufruire dell’energia idrica
e, perciò, umide e infettate da insetti. Inizialmente come sede
per gli opifici erano riutilizzati antichi edifici come monasteri ed ex
conventi o grosse cascine. Un esempio sono le numerose filature di seta:
“si aveva un’alta tettoia sostenuta da pilastri di mattoni
collegati da muri o semplici cancellate di legno, all’interno c’erano
fornelletti alimentati a legno e sprigionanti continuamente fumo...”.
Surriscaldate
in estate e gelide di inverno a causa di poche finestre e muri sconnessi
che facevano entrare correnti d’aria fredda e calda, sempre umide
e fumose, accalcavano operai sottoposti alla polvere della lavorazione
del cotone, alla puzza degli acidi, al fumo del vapore.
Pertanto
i lavoratori operavano in condizioni antigieniche che spesso causavano
malattie linfatiche, febbri croniche e disturbi alle vie respiratorie:
un operaio a quarant’anni era già considerato vecchio. La
vita nella fabbrica era dura: il lavoro, faticoso e lungo, si fondava
sulla forza manuale ed era svolto soprattutto da donne e bambini. Si contavano
in percentuale generalmente il 64% di donne, il 14% di bambini e la restante
percentuale di uomini. Le ore di lavoro potevano arrivare a 13/14 al giorno.
La
classe operaia dovette aspettare il 1886 per riuscire ad ottenere le prime
legislazioni sociali per la tutela degli orari, dell’ambiente e
delle condizioni generali del lavoro ( sarà introdotto per esempio
l’obbligo dei libretti, i limiti di età lavorativa saranno
alzati a dodici anni…). Questa situazione non era certo ripagata
dal salario, perché uno stipendio minimo nel 1880 era di 0,45 £,
il massimo ( quello dei fabbri) era di 3,31 £ giornaliere, mentre
il pane costava 0,46 £ e la carne 1,32 £ al kg.
Quindi
un operaio lavorava un giorno intero per un chilo di carne o due chili
di pane e un litro di vino.
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